Quanto Platone c’è nei testi dell’intelligenza artificiale?

Per Socrate i discorsi scritti non sanno difendersi, a differenza di quelli orali. Il web 2.0 arriva in soccorso, ma ci dice solo quello che volevamo sentirci dire...

Leggendo una parte del Fedro di Platone ci si rende conto di una grande novità portata con sé dal web 2.0 e ora ancor di più ora dall'intelligenza artificiale. Parlo di quelle righe (siamo nel 4° secolo a.C., ad Atene) che tematizzano la differenza fra la memoria cerebrale e i testi scritti come sostrato mnemonico. Non si usavano ancora i libri come li conosciamo oggi. Lì, Socrate aggrediva i testi scritti. Poneva due critiche maggiori. La prima: i testi scritti non sono memoria di chi li usa, perché sono una memoria esterna. Quindi chi usa testi scritti non è un sapiente. La seconda, più interessante: i testi scritti non sanno a chi stanno parlando. Hanno quindi sempre bisogno allora del padre per difendersi. Oggi chiamiamo questa operazione di “difesa” con il concetto di “interpretazione autentica”. Ovvero ci chiediamo se l’unica autorità che veramente può interpretare un testo sia la persona che lo ha scritto.

 

Questa riflessione si lega al nostro modo di interagire con l’internet perché mostra che i testi scritti sul web sono radicalmente diversi da quanto pensava Platone nel Fedro. Quando interagiamo con internet sempre di più ci sembra che esso ci conosce e ci accoglie. Ci mette la pubblicità che fa apposta per noi, ci trova i risultati di ricerca proprio come li desideravamo, Alexa ci saluta. L’internet oggi è un testo costellato di feedback. Le cose che ci scrive sembrano essere scritte conoscendoci. Cade quindi il problema primo del Fedro, ovvero che il testo scritto non possiede la capacità dell’oratore di modulare il discorso in base alla sua platea.

 

Chiaramente internet può fare tutto questo per due motivi: 1) nella nostra interazione con le macchine virtuali gli diamo una montagna di dati, così può profilarci e capire quali siano le nostre preferenze; 2) siamo sempre più standardizzati e disciplinati, cosìcche va sul sicuro sapendo che non avremo personalità troppo stranucce.

 

Il web 2.0 e l’intelligenza artificiale non sono quindi una persona esterna che ipotizza la nostra reazione, ma è uno specchio di noi stessi. La distribuzione di conoscenza non è interrelazionale, ma autoreferenziale. Il passaggio dalla cultura scritta alla cultura digitale assume la forma di un movimento postplatonico, in cui il testo scritto non ha più bisogno del padre per difendersi, perché il padre è la stessa persona a cui sta parlando. Nel testo che leggiamo online troviamo regolarmente una parte di noi. E dato che l’internet è il nostro mondo, questo - secondo me - provoca uno stravolgimento del nostro modo di socializzare e di costruirci aspettative su come interagirà il mondo con noi.

 

Negli ultimi anni sembra che siamo diventati tutti molto sensibili, piuttosto leggerini. L’opinione degli altri ci irrita (a meno che non cerchiamo apposta qualcuno o qualcosa a cui diamo il diritto di trattarci male). Uno dei motivi per questa ipersensibilità individuale potrebbe stare nell'abitudine ad interagire con un mondo che continua a dirci che siamo noi a dare la misura delle cose che ci vengono proposte davanti agli occhi. Che il testo risponde sempre alle nostre aspettative. Attivando giorno per giorno l’interfaccia digitale calibrata sulla nostra individualità, ci rendiamo inevitabilmente tutti più narcisi e la complessità del mondo esterno ci appare ingestibile se non è formata in quello stesso modo che abbiamo nell’interazione con la macchina. L’aspettativa ora è che le proprie necessità saranno sempre rispettate dal resto della società, dato che la stragrande maggioranza dei nostri contatti con il mondo (ovvero: i contatti mediati dalle macchine) sono calibrate sui nostri bisogni.

 

È come se implicitamente ci diciamo: “se le macchine possono rispettarci, perché non dovrebbe poterlo fare un altro essere umano?”.

 

Questa sensibilità narcisista cambia il significato delle cose, perché nel momento in cui tutti pretendono che le loro aspettative individuali siano rispettate, allora si crea un enorme catino cacofonico da cui è difficile elaborare una sintesi. E qui entra in gioco il costante miglioramento della rivoluzione digitale, che non è solo origine della destabilizzazione del discorso, ma si pone anche come soluzione del problema dell’aumento di complessità. Ecco che nella cacofonia generale, la soluzione trovata sta nel permetterci di essere sempre in contatto con le stesse persone nelle nostre chat, così da poter conoscere i loro stati di umore e le loro esperienze di vita. In internet condividiamo ogni momento di noi stessi e guardiamo cosa condividono gli altri, così da essere sicuri da avere il feedback desiderato. Nessuno può dirmi ora “non lo sapevo!”, dato che tutto quello che ho fatto era già stato comunicato. “Come facevi a non saperlo? Se non lo sapevi sei colpevole.”

 

Una volta erano le associazioni, i circoli e i partiti a distribuire socializzazione. Lì il comportamento era normativo, era previsto in quanto il socio si adeguava al minimo comun denominatore. Chi uscisse dal comportamento previsto era gentilmente accompagnato alla porta. Oggi la socializzazione è diversa: forniamo agli altri la nostra vita, così che sappiano esattamente con chi stanno parlando. E se non vogliono saperlo, allora sono loro che se ne andranno via. Ci stiamo abituando a una cultura del feedback anticipato, stiamo diventando dei control freaks.

 

Cercare di uscire da questi automatismi sarebbe assurdo, perché avere un mondo che risponde alle nostre necessità ci permette di gestire un enorme aumento di complessità. Un esempio è questo stesso testo, che ho scritto dettandolo al cellulare e osservando in presa diretta quali parole il computer stava scrivendo, trasformando la mia voce in caratteri virtuali. La macchina non stava solo eseguendo un comando. Era impostata in modo tale da farmi vivere un’esperienza di feedback immediato: metteva a schermo esattamente il desiderio che avevo in testa, permettendomi di rispecchiarmi sullo schermo. La soddisfazione delle mie aspettative è garantita, e così io come tutti gli altri cerco di vivere anche il resto del mondo in questo modo operativo ed efficace.

 

Socrate metteva in luce che discorsi orali sapevano difendersi, mentre i discorsi scritti no. Il dispositivo digitale risolve questo limite eliminando il bisogno stesso del testo di doversi difendere, dato che il lettore ha il sentimento che il testo è scritto proprio per sé. Siamo anticipatori, e così siamo abituati a farci dire esattamente quello che volevamo sentirci dire. A prima vista tutto questo provoca un certo inaridimento della struttura discorsiva, che rinuncia alla dimensione dialogica e conflittuale per entrare in una dimensione narcisista e autoreferenziale. D’altro canto, possiamo gestire un aumento spaventoso di complessità, perché questo modo di interagire con il testo ci permette di rimanere interconnessi con tutto il mondo, dato che le differenze di tempo, di distanza e di cultura non sono più muri insormontabili. Il mondo ora ci frequenta.

 

Penso che l’analisi degli spazi politici e dell’attività concreta, materiale, sul territorio, deve partire da questa consapevolezza della propria interazione con il testo e quindi con il mondo.

 

 

Filippo Contarini, Parigi