Filippo Contarini - Roald Dahl e la condizione grassa

Riscrivere Roald Dahl perché si esprimeva in modi insensibili o insultanti. Non più grasso, meglio "anormale"? La critica a Roald Dahl dovrebbe passare da altro, ma per i pionieri della Buoncostume...

Giuliano Ferrara ricorda che Buddha era grasso, mica magro! E che dire di Paolo Villaggio, che in una memorabile intervista sulla grassitudine con Maurizio Costanzo spiegava che per un ciccione la sensazione di mangiare dopo due giorni di digiuno va ben oltre l’effetto di una droga pesante! La ciccia elevata a divinità, la ciccia elevata a divinazione.

I grassi guardandosi fra loro si vedono allo specchio. Ne piangono? Ne ridono? Ah, fosse così semplice! Sempre Costanzo diceva al povero Fantozzi: “di profilo sei ributtante!”. Parlava, evidentemente, anche a sé stesso. Sono sinceramente patetici tutti quei grassi che dicono “grasso è bello!”. Patetici perché sanno benissimo che la condizione grassa è molto di più che non una questione estetica.

Quando qualcuno mi dice “grassone!” mi viene da pensare fra me e me, con tono ironico ma nervosetto: “oh diamine, hai scoperto il mio segreto!”. Non lo sa, lui magro, che il grasso anzitutto veicola da sé un’immagine di sé. E che quindi ogni volta che mi dici “grasso!” diventi una mia marionetta, mostri che sì, io posso governare il mondo! Ahah! Il grasso è matto. Apre il frigo e sembra di essere come quando vinci a Super Mario Bros e cadono monetine da ogni punto dello schermo, hai in mente? La follia dell’auto-appagamento, del riempimento cornucopiale al contrario, è doppia. Perché in quel frigo c’è anche il maialino automatico che quando lo apri quello grugnisce e ti ricorda che anche tu appartieni alla stalla. Quando sei grasso, nello stesso momento di ingrassare ti ami e ti odi. Soddisfi sia il tuo senso di libertà, sia il tuo senso di colpa. La condizione doppia vale anche col mondo esterno: il grasso è amato e odiato al tempo stesso. Rappresenta la convivialità, ma anche la morte. Vive il suo double binding in modo totale e completo. Mentre ti chiedono amorevolmente “ne vuoi ancora?” ti condannano nella tua empietà bestiale. Vogliono starti vicino, ma sperano che i loro figli non diventino come te.

Il grasso cerca amore, allontanandolo. Il grasso è colui che elogiando la vita corre verso la morte. Adoro l’obeso sfrecciare in motocicletta, ancora più quegli splendidi gay in tenuta leopardata sculettare in un voguing sfrenato. Ecco, parliamo del rifugio orsino, ogni tanto mi dispiace non vivere l’omosessualità: sei meno esposto a quei commenti tranchant di come saresti bello se non fossi grasso. Ciccione, mangione, cicciobombo cannoniere, discarica, fogna, senzafondo, ciugna, container, panzone, palla. Il mondo ti guarda, il mondo ti indica, il mondo ti giudica. Mostro: costerai alle casse dello Stato, ma soprattutto rappresenti il monumento all’incapacità di autocontrollo. Il grasso c’è – e disturba. È perché disturba che c’è. Il grasso parla attraverso il suo strato informe. Sbagliato, il grasso si nasconde, il grasso si mostra. Il grasso è uno e due. È una persona in potenza, ma anche impotente. Sei sempre ricondotto a chi potresti essere, non sei mai pienamente tu. C’è sempre qualcun altro là sotto. O no?

Sono grasso, sono stato anche magro, sono uno yo-yo. Ogni tanto guardo la mia pancia, è le dico grazie. Grazie che mi proteggi, tante cose difficili non le avrei sapute fare senza di te. Ogni tanto la odio, come quando odi un’amica che ti dice la verità, hai in mente? La grassitudine è auto-deprecazione. Quando sei grasso non ti votano. Poi guardi bene, e fior fior di capi di Stato erano non grassi, di più! Pavarotti era un maiale, ma lo ascoltavi comunque, piangendo, spiegando che come lui nessuno mai. Il grasso c’è, ma il grasso non c’è. Quando sei grasso cercano conforto da te. Tutti sanno – ma è vero? – che noi grassi siamo indaffarati con noi stessi. E allora ti parlano sapendo che non gli vomiterai il tuo giudizio addosso. Il grasso è imperfetto, per questo il grasso è perfetto. Sanno che quando sei grasso, chi sei tu per giudicare chi non si sa controllare? Il grasso è pace.

Il Buddha, dicevamo. Il grasso davanti al frigo fa un esercizio yogatico: il sé e il fuori di sé. Come un monaco, in cucina è nel suo monastero in cui può esprimere senza freni la sua condizione doppia. Si odia. Si ama. Vorrebbe essere diverso, vuole continuare a essere chi è. Ride. Piange. Ride. Vuole essere il mondo, si perde nel suo essere limitato a sé stesso. Divino, abbiamo Platinette dentro di noi.

In questi giorni ho letto che vogliono riscrivere Rohald Dahl in vari punti, perché si esprimeva in modo insensibile e insultante. Ad esempio, taccia di essere “grassi”, “fat”, alcuni suoi personaggi. Non sia mai! I pionieri della Buoncostume di un ufficio interno alla casa editrice sostengono che chiamare “fat” un grasso violi il benessere del lettore. Spiegano che è come esporre i poveri bambini grassi all’insulto degli altri bambini: “grasso, grasso!”. I bambini, così la narrativa buonista, non vanno esposti agli insulti da parte degli altri bambini. Mica sanno difendersi, i bambini… Ma ne siete sicuri? Siete sicuri che io non abbia imparato niente dalla condizione grassa? Siete sicuri che non abbia imparato niente osservando quell’amichetto che quando eravamo da soli era tanto caro, mentre in gruppo mi menava dicendomi che ero grasso? Siete sicuri sicuri che vivere una difficoltà nella vita non ti insegni a conoscere te stesso, a trovare in te la forza e scoprire le tue debolezze? Siete sicuri che conoscere la parte oscura dell’umano sia così malsano? Insomma: siete proprio sicuri che i bambini devono crescere nel palazzo di cristallo per crescere bene?

La casa editrice ha sostituito “grasso” con “enormous”, “enorme”. Che dire? Dal lor punto di vista io da “grasso” che ero, sono diventato e-norme. Fuori dalla norma. Da un giorno all’altro e per ordine di un Ufficio centrale io sono definitivamente anormale. Per gli apostoli della Bontà io ora non merito più insulti, ma un’etichetta neutra, a cui affidare la neutra descrizione di chi sono. Che quell’etichetta possa ben più violenta dell’originale, sembra interessare poco. Ci si dimentica che gli Uffici centrali sono sempre più violenti della realtà, anche quando vogliono fare del Bene.

Pensare di risolvere questioni sociali e politiche complesse cambiando la lingua di un autore di successo è un approccio ingenuo e radicalmente sotto-complesso ai problemi del mondo. L’esempio lampante di privarmi della mia grassitudine per inserirmi nel mondo degli anormali mostra benissimo come questi Apostoli non abbiano capito nulla delle strutture della mente.

Giusti, pensano che ci muoviamo in uno spazio neutro, come se fossimo tutti nel world wide web, e non più sul pianeta Terra. Combattono contro il Male senza rendersi conto che il Bene è ben più biforcuto del diavolo in persona. E invece la società è un grande gioco. Ridurre me, i grassi come me e i bambini grassi come lo ero io al ruolo di vittima significa non aver capito niente della psiche umana e della relazionalità di una società tardo-capitalista. Proteggermi significa negarmi la mia capacità di individuare spazi nelle fessure della società. Significa ignorare il ruolo in cui le diverse forme di autorità entrano in contatto con il bambino: la famiglia, la scuola, la televisione, la tecnica. Correggono la lingua, ma non si muovono di un centimetro nella critica alle strutture religiose e capitaliste. Tutti buonisti, probabilmente sentono il bisogno di sciacquarsi la coscienza costo zero. Sì, perché in tutto questo nessuno parla del micro-problema che nel frattempo Roald Dahl è diventato un bene di consumo, così come i suoi film… Era Roald Dahl un fottuto antisemita? Benissimo, ma perché continuate a stamparlo allora? Forse perché ci guadagnate una marea di soldi? Il credo nella società di consumo è inquestionabile, per cui preferiscono correggerlo costruendo una lingua neutra piuttosto che proporre alternative. Piuttosto che chiedersi come l’individuo e la comunità interagiscano con il mondo attorno a sé.

Quando facevo il praticante avvocato dei migranti chiacchieravo con un panzone come me, congolese. Discutevamo che in Namibia il panzone è un kapunda, una parola peraltro con una connotazione positiva. La distanza con la body positivity americana non potrebbe essere più radicale: lì in Namibia una parola espressa da una comunità; qui in America l’istillazione puritana dell’amor proprio del soggetto individuale capitalista, che deve star bene per consumare meglio. La vedete la differenza abissale? La lingua è un prodotto storico e locale. Nella nostra cultura capitalista individualista (e piuttosto evangelica) sembra ormai contare solo la costruzione di uno spazio di benessere neutrale in cui permettere una aprioristica sana crescita psicologica. Watzlawick non è passato da quelle parti.

Per gli Apostoli della Bontà conta la lingua parlata “fuori”, senza chiedersi come si faccia lingua parlata “dentro”. Che dite, ho un pensiero troppo sovietico? Ma lo ripeto: questa spinta verso le strutture neutre oscura la complessità delle strutture d’amore e il loro paradosso, ovvero che pur di amare saresti disposto a bloccare l’evoluzione dell’amato (su questo ascoltare Battiato – peraltro un dannato stecco – che ne parla nella sua canzone “La cura”).

Cultura è situarsi nel proprio mondo e questionarne le dinamiche. Cultura è dire che quando di notte abbatti un centro sociale con le ruspe, sei proprio un bastardo, non sei solo “scorretto”. La non-cultura è invece quell’involuzione che basa la convivenza sui soldi e sugli spazi neutri. Vogliamo parlare di grassi? Allora parliamone seriamente, spiegando che c’è una differenza in sé fra i grassi che mangiano al McDonald’s (un non-luogo, direbbe Marc Augé) e quelli che han costruito la propria busecca a suon di maccaroni all’amatriciana! La critica a Roald Dahl, più che al fatto che era un antisemita misogino razzista, dovrebbe vertere sul problema che le sue case editrici ci hanno fatto i soldi e continuano a farli, come se fosse impossibile smettere di stamparlo. Cosa che vale peraltro anche per il “Libro della Giungla”, razzistissimo, di Kipling. Sarebbe così bello ogni tanto sentire critiche serie. Ma oggi Roald Dahl e Kipling sono oggi incriticabili (pace all’anima di Edward Said) non per quello che han scritto, ma perché sono stati proiettati e inglobati all’apice di una cultura filmica spettacolare e capitalista. Guy Debord ci metteva in guardia proprio sul problema che non tanto i contenuti, ma la logica del mercato ci viene picchiata in testa usando le belle storie. E così oggi ci troviamo con le case editrici e la disney (per dirne una) che aprono gesuitici Uffici del Benessere e fanno political correctness, proprio come McDonald’s che fa educazione ambientale… da pelle d’oca! Dovremmo ribellarci spiegando che quei colossi non hanno nulla da insegnarci, dato che sono anzitutto loro ad aver reso impossibile l’effettività di qualsiasi critica sociale e comunitaria.

Quando sento parlare di body positivity non riesco a non pensare a questa normalità di mercato. Sento attorno a me la critica di Achille Mbembe, di quella sua immagine realistica ma dal sapore distopico di tutto il mondo costretto ad essere la propria immagine. La body positivity dice allora che tu sei la tua immagine di grasso che va bene. Va sempre tutto bene, pur che tu abbia la tua immagine!

Ebbene no, la mia pancia non è positive. La mia pancia è kapunda. La mia pancia è la matriciana. La mia pancia è il Male e il Bene insieme, senza che sia possibile una sintesi. E io ero e sono “grasso”, consapevole che ci sarà chi mi vorrebbe magro perché mi ama, chi vorrà insultarmi perché rappresento il Male, e chi sinceramente se ne frega della mia pancia.

La critica a Roald Dahl non si fa con l’ufficietto di censura gesuitica, che permetterà alla casa editrice di continuare a fare i suoi bei soldi. Non si fa così perché semplicemente il problema della complessità del mondo consumista con quell’Ufficietto non è stato nemmeno sfiorato. Anzi, è stato addirittura aggravato, dato che io da “grasso” grazie a questi lodevoli signori sono diventato “e-norme”, anormale. Eppure, mi spiace informarvi che io sono normalissimo: sono biforcuto, proprio come voi.

La critica all’arte si fa con l’arte, si fa con la cultura, si fa con la costruzione di spazi colorati. Gli Ufficetti del Benessere stanno invece costruendo un mondo perfettino di spazi bianchi, basta che ci si possa continuare a far soldi. Lasciate in pace la mia grassitudine e tenetevi la vostra e-normalità. Che chi sa ritenersi Giusto e normale, alla fin fine è il primo ad ardere nell’inferno delle proprie contraddizioni.

 

Filippo Contarini, grasso ricercatore in storia e teoria del diritto capitalista